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DIRITTO DEL LAVORO: NEL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA I FATTI CONTESTATI VANNO VALUTATI COMPLESSIVAMENTE

La Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con ordinanza n. 23318/2024, si è pronunciata su un caso di licenziamento disciplinare determinato da molteplici episodi disciplinarmente rilevanti tenuti da un direttore di banca.

Nel caso di specie, una banca aveva licenziato per giusta causa il direttore di una propria filiale sulla base di una contestazione formata da vari addebiti. Il lavoratore impugnava il licenziamento con ricorso rigettato in primo grado. In appello, i giudici del merito riformavano la sentenza accertando l’illegittimità del licenziamento sulla base dello scarso rilievo disciplinare delle singole condotte, ritenute “prive di offensività”.

La banca datrice di lavoro proponeva ricorso per Cassazione, la quale ha innanzitutto affermato che in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, quando siano contestati diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito non deve esaminarli atomisticamente ma è chiamato a valutare la loro incidenza complessiva sul rapporto di lavoro.

Il richiamo a una valutazione complessiva degli addebiti è un elemento ricorrente nella giurisprudenza in materia di licenziamento disciplinare, sotto due profili: da un lato, sotto il profilo dell’immediatezza, quando i vari fatti vengano progressivamente a conoscenza del datore di lavoro invece che in un unico momento; dall’altro, in punto di proporzionalità della sanzione.

Quanto all’immediatezza, la questione viene in rilievo quando le singole condotte, di per sé di scarso valore disciplinare, siano reiterate in un determinato arco di tempo e assumano rilevanza proprio per la loro frequenza. In questi casi, la tempestività della contestazione non va misurata sulla conoscenza da parte del datore di ogni singolo episodio ma a partire dall’ultimo, che cristallizza una condotta a formazione progressiva.

Nel caso di specie, la Suprema Corte ha in particolare sottolineato come fosse fuorviante il richiamo operato dalla Corte d’Appello alla "offensività", espressione del principio, di matrice penalistica, secondo il quale la sussistenza del reato va riscontrata alla luce della lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma. Una simile impostazione non considera il costante orientamento secondo il quale, in tema di licenziamento disciplinare, “è irrilevante, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, l'assenza o la speciale tenuità del danno subito dal datore di lavoro, elementi da soli affatto sufficienti ad escludere la lesione del vincolo fiduciario, perché ciò che rileva è la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti”.