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DIRITTO DEL LAVORO: UNA SINGOLA CONDOTTA MOBBIZZANTE DEL DATORE DÀ DIRITTO AL RISARCIMENTO?

La Cassazione, con ordinanza n. 29101/2023 è tornata a pronunciarsi sul risarcimento danni da condotta mobbizzante del datore di lavoro affermando che ciò che rileva è che il fatto commesso, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento.

Nel caso di specie, Il datore attuava dei comportamenti stressogeni specie nei confronti del ricorrente, tuttavia la Corte d'appello di Roma, pur avendo accertato tale condotta, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva negato la fondatezza della domanda di risarcimento di tutti i danni per mobbing presentata dal ricorrente - lavoratore e ciò per mancata prova della reiterazione della condotta riferita ai singoli fatti mobbizzanti.

Affermava la Corte di Appello, infatti, che andava negata l’illiceità della stessa trattandosi di un episodio isolato che esulava dalla sistematicità di una condotta vessatoria o discriminatoria reiterata nel tempo (che deve sussistere per poter qualificare come mobbizzante la condotta del datore di lavoro e del superiore gerarchico).

La Corte di Cassazione, investita della questione, non concordava con la decisione del giudice di secondo grado in quanto in relazione alla tutela della personalità morale del lavoratore è oramai risalente l’orientamento (Cass. n. 3291 del 19/2/2016) secondo cui, al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c.

La reiterazione, l’intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma è chiaro che nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale.

E invero è noto l’orientamento costante della Suprema Corte, secondo cui lo straining rappresenti una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all’ art. 2087 c.c., sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere, comunque, accolta. Pertanto, la Corte di Cassazione ha cassato, con rinvio, la sentenza n. 4720/2018 della Corte d'appello di Roma.